1. La Convenzione dell'Aja del 1907
Solamente
nel 1907, con la 2ª Conferenza Internazionale di Pace dell’Aja, si
addiviene ad un primo tentativo di uniformare il concetto di
“saccheggio” e di dettarne alle Nazioni contraenti il divieto per il
futuro.
La 4ª e la 9ª Convenzione (art. 27), stipulate in
quella sede, dettano norme sulle leggi e gli usi della guerra terrestre e
sul bombardamento di obiettivi terrestri da parte di forze navali,
escludendo per la prima volta il diritto di fare bottino delle cose
appartenenti al nemico.
Infatti, la protezione dei beni
culturali era limitata dal Regolamento allegato alla 2ª Convenzione
dell’Aja del 1899 (art. 27) alla prescrizione che negli assedi e
bombardamenti dovevano essere adottate tutte le misure precauzionali per
risparmiare, il più possibile, gli edifici consacrati ai culti, alle
arti, alle scienze e alla beneficenza e assistenza, i monumenti
artistici e storici, etc. Questo a condizione che tali beni non fossero
utilizzati per scopi militari e fossero segnalati con segni speciali e
ben visibili a distanza, comunicati preventivamente alla potenza
belligerante avversaria.
Tralasciando le pur rilevanti
iniziative di governi, enti internazionali e associazioni private nel
periodo tra le due guerre mondiali al fine di predisporre testi
normativi internazionali dall’approccio più incisivo - quali in
particolare, nel 1918, il progetto della Società Olandese di Archeologia
di creare “santuari dell’arte” per proteggere un patrimonio
appartenente a tutti gli uomini civili e soprattutto il progetto di
convenzione per la protezione dei monumenti e delle opere d’arte nel
corso di conflitti armati dell’Office International des Musées del 1938 -
è opportuno prendere in considerazione più da vicino gli sviluppi della
prassi successiva alla fine della 2ª Guerra Mondiale.
Durante
il conflitto mondiale, la Germania si è distinta nell’attuazione di una
politica di sistematico saccheggio e confisca di opere d’arte in palese
violazione delle norme ormai generalmente accettate del diritto
internazionale bellico e, in particolare, degli artt. 46 e 56 della
citata 4ª Convenzione dell’Aja del 1907.
Tali violazioni sono
stigmatizzate espressamente nella Carta di Londra dell’8 agosto 1945,
istitutiva del Tribunale militare internazionale di Norimberga, in base
alla quale (Cap. II, art. 6 dello Statuto della Corte) costituiscono
crimini di guerra, fra gli altri, “il saccheggio di proprietà pubbliche e
private, gratuite distruzioni di città, paesi e villaggi, o la
devastazione non giustificata dalla necessità militare”.
Un
richiamo esplicito alle norme in questione ricorre sia nel giudicato
dello stesso Tribunale di Norimberga che condannava il capo
dell’Einsatzstab Rosemberg sia in altri giudicati relativi ad alcune
azioni di rivendicazione di opere d’arte asportate durante la guerra.
È agevole constatare come i trattati di pace conclusi al termine della
guerra contengano delle disposizioni confermative degli obblighi
internazionali in tema di restituzione di opere d’arte asportate durante
la guerra. Non solo, i trattati di pace conclusi alla fine della 2ª
Guerra Mondiale confermano, da un lato, l’esistenza di norme
internazionali generali specificatamente rivolte alla protezione dei
beni culturali mobili e, dall’altro, contribuiscono a rafforzare
decisamente l’idea che, anche sul piano del diritto interno, a detti
beni - in quanto oggetto di spoliazione o confisca - non possano essere
applicabili le norme ordinarie in tema di trasferimento e circolazione
dei beni mobili.
Su questo background, il 14 maggio 1954 viene
firmata all’Aja la Convenzione sulla protezione dei beni culturali nei
conflitti armati, che costituisce il primo strumento internazionale
interamente ed esclusivamente dedicato ai beni culturali e il primo ad
utilizzare tale terminologia.
2. La Convenzione dell'Aja del 1954
La
Convenzione si occupa principalmente della sorte dei beni in questione
“pendente bello” mediante la configurazione di un sistema di
preservazione e conservazione fisica in senso stretto. Infatti, l’art. 4
impone, tra gli altri, l’obbligo di impedire e far cessare qualsiasi
atto di furto, saccheggio o sottrazione di beni culturali sotto
qualsiasi forma.
La sorte dei beni culturali, una volta
terminato il conflitto, è invece regolata da un protocollo alla
Convenzione, sottoscritto lo stesso giorno, che peraltro riafferma
all’art. 3 l’obbligo di restituzione, escludendo che i beni culturali
esportati dal territorio occupato, in contrasto con l’art. 1, possano
essere poi trattenuti a titolo di riparazione alla fine delle ostilità.
L’art. 4 prevede poi, a carico della parte contraente su cui spetta
impedire l’esportazione dei beni culturali dal territorio occupato,
l’obbligo di indennizzare i possessori di buona fede dei beni da
restituire.
La Convenzione dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato è composta da:
- la Convenzione;
- il Regolamento di esecuzione;
- il Protocollo.
L’importanza
della Convenzione risiede anche nel fatto che essa ha concentrato tutte
le disposizioni riguardanti la protezione dei beni culturali in un solo
strumento, mentre in passato queste norme erano sparpagliate in vari
testi giuridici, costituendo così un vero e proprio Codice dei beni
culturali, i cui principi fondamentali fanno ormai parte del diritto
internazionale consuetudinario.
Dopo le devastazioni e gli
orrori della 2ª Guerra Mondiale, in seguito ad una proposta del Governo
olandese, nel 1949 l’UNESCO - Organizzazione delle Nazioni Unite per
l’Educazione, la Scienza e la Cultura - inizia una serie di studi e di
consultazioni a livello di esperti e di rappresentanti governativi. Da
tali attività nel 1952 presso Villa Aldobrandini sede di UNIDROIT -
Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato - prende
corpo il progetto di convenzione.
Tale progetto di convenzione
viene presentato agli Stati nel febbraio 1953 e posto alla base delle
discussioni della conferenza intergovernativa tenutasi all’Aja dal 21
aprile al 14 maggio, ove furono presenti 56 Stati. Al termine dei
lavori, 37 Stati hanno firmato l’Atto finale della Conferenza e la
Convenzione per la protezione dei beni culturali in tempo di guerra.
Insieme ad essa vengono approvati il Regolamento di esecuzione ed il
Protocollo.
a. Campo di applicazione
La Convenzione dell’Aja per la verità non prevede, per espressa
disposizione dell’art. 33, la sua applicazione a fatti anteriori alla
sua entrata in vigore (7 agosto 1956, con 70 Stati finora ratificanti
tra i quali l’Italia), ma questa limitazione del campo di applicazione
ratione temporis non assume un significato particolare, al pari della
circostanza che l’obbligo di restituzione è contenuto in un protocollo
facoltativo anziché far parte a pieno titolo del resto della
Convenzione.
E infatti il protocollo è stato ratificato dalla
stragrande maggioranza degli Stati contraenti la Convenzione. Del resto,
per espressa statuizione del preambolo e dell’art. 36, la Convenzione
dell’Aja si pone come strumento “supplementare” e non alternativo
rispetto alle Convenzioni di codificazione dell’Aja del 1899 e del 1907
alle quali si affianca.
La Convenzione è applicabile ai
conflitti armati internazionali che sorgano tra due o più Parti
Contraenti, anche se lo stato di guerra non sia riconosciuto da una o
più di esse. Nel caso di conflitto armato non internazionale, sorto nel
territorio di una delle parti, ognuna delle parti in conflitto sarà
tenuta ad applicare almeno quelle fra le disposizioni della Convenzione
che si riferiscono al rispetto dei beni culturali.
Si deve
aggiungere che sono prese in considerazione solo le situazioni in cui
vengono utilizzate le armi convenzionali classiche. Come per le altre
Convenzioni del diritto umanitario, la questione delle armi di
distruzione di massa e di quelle nucleari viene lasciata da parte.
b. Preambolo
Il Preambolo, pur non avendo forza di legge, è molto chiaro circa il
motivo della sua adozione e i principi che ne sono alla base ed inizia
con la constatazione da parte della Alte Parti Contraenti dei gravi
danni che i beni culturali hanno subito nel corso degli ultimi conflitti
e con la preoccupazione, rivelatasi esatta, delle sempre maggiori
distruzioni in conseguenza dello sviluppo della tecnologia bellica.
Il principio cardine della Convenzione è enunciato al secondo capoverso
del Preambolo, secondo il quale la conservazione del patrimonio
culturale non è affare soltanto dello Stato sul cui territorio si trova
il bene, ma dell’umanità intera, in quanto ogni popolo contribuisce alla
cultura mondiale.
Ciò comporta la necessità di assicurare a
questo patrimonio una protezione universale. La nozione di patrimonio
culturale dell’umanità, che ritroviamo nel Preambolo, non è facile da
definire; essa comprende non solo beni mobili ed immobili, come le opere
d’arte ed i monumenti, ma anche le espressioni artistiche quali la
musica, la danza, il teatro, nonché quel patrimonio culturale
intangibile che sono il folklore, i riti, le tradizioni, etc.
Questa nozione è stata ripresa da vari documenti dell’UNESCO e anche
nella convenzione del 1972 riguardante la protezione del patrimonio
culturale e naturale mondiale.
Sempre nel Preambolo si ricorda che
la protezione dei beni deve essere organizzata già in tempo di pace, con
provvedimenti a livello sia nazionale sia internazionale.
Si
sottolinea, inoltre, l’impegno delle Parti Contraenti a prendere tutte
le disposizioni possibili per proteggere i beni culturali. Nel testo
originario figurava l’aggettivo “appropriate” poi sostituito con
“possibili”, modificando naturalmente in senso restrittivo la frase e
rendendola più soggettiva.
Troviamo, infine, il richiamo ai
principi su cui si fonda la protezione dei beni culturali in caso di
conflitto armato, stabiliti nelle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del
1907 e nel Patto di Washington del 15 aprile 1935. Nonostante il fatto
che non siano richiamate le Convenzioni di Ginevra del 1949, esse hanno
largamente influenzato la presente Convenzione come confermano i lavori
preparatori e lo stesso testo.
Lo spazio a nostra disposizione
non ci consente di analizzare in modo approfondito i 40 articoli, divisi
in 7 capitoli, che formano la Convenzione, ma richiameremo le
disposizioni generali, alcune disposizioni generali che descrivono la
protezione accordata ai beni culturali.
c. Protezione generale
Innanzitutto, la definizione di bene culturale, data dall’art. 1,
ricomprende i beni mobili ed immobili di grande importanza per il
patrimonio culturale dei popoli e riporta un elenco esemplificativo
(monumenti, siti archeologici, opere d’arte, etc.). Ad essi si
aggiungono quegli edifici la cui destinazione principale ed effettiva è
di conservare ed esporre i beni culturali mobili già definiti ed i
centri comprendenti un numero considerevole di beni culturali, detti
centri monumentali.
Nella definizione della Convenzione i beni sono
considerati culturali a prescindere dalla loro origine o dal loro
proprietario. La qualificazione è data dalla grande importanza e non dal
valore del bene.
La protezione dei beni culturali si concretizza
nella salvaguardia e nel rispetto di tali beni. La salvaguardia è
costituita da quell’insieme di misure positive che cercano di assicurare
al meglio le condizioni materiali per la protezione dei beni culturali.
L’UNESCO ha fornito qualche esempio di queste misure:
- protezioni speciali contro il pericolo di incendio e di crollo di immobili di grande valore (musei, archivi, etc.);
- imballaggi e stoccaggi speciali per i beni mobili;
- l’approntamento di rifugi e l’organizzazione dei trasporti in caso di necessità;
- la creazione di un servizio civile per mettere in pratica i piani di protezione in caso di conflitto.
Il
secondo elemento di concretizzazione della protezione dei beni
culturali è costituito dal rispetto. Secondo l’art. 4, le Parti si
impegnano a rispettare i beni culturali situati tanto sul proprio
territorio che su quello delle altre Parti Contraenti, spezzando così la
nozione di territorialità e ribadendo di nuovo il principio che i beni
culturali devono essere rispettati da tutti gli Stati a prescindere dal
territorio su cui si trovino.
Le Parti si impegnano inoltre ad
astenersi da qualsiasi utilizzazione di tali beni per scopi che
potrebbero esporli a distruzione o deterioramento in caso di conflitto
armato, nonché da qualsiasi atto di ostilità nei loro riguardi.
Il secondo comma dell’art. 4 prevede l’eccezione della necessità
militare, che offre alle Parti di derogare agli obblighi del primo
paragrafo quando la necessità militare lo esiga in modo imperativo. La
storia del diritto e della codificazione delle regole umanitarie
dimostra che il diritto umanitario è il risultato di un compromesso tra
la necessità militare e i principi di umanità. Il punto di equilibrio
tra queste due esigenze è molto spesso difficile da realizzare.
Durante la conferenza intergovernativa numerose delegazioni si sono
espresse a favore del mantenimento dell’eccezione della necessità
militare, sia per facilitare l’adozione della Convenzione sia per
ragioni umanitarie: è stato fatto notare che nel corso di un
combattimento la necessità militare potrebbe imporre di distruggere un
bene culturale se da ciò dipendesse la vita di migliaia di soldati; in
tal caso nessun comandante esiterebbe a salvare la vita dei propri
soldati.
Contrariamente a quanto previsto dall’art. 8 per la
protezione speciale, la valutazione concreta della necessità militare è
lasciata ai militari senza richiedere alcuna condizione specifica. E ciò
potrebbe condurre ad un impiego arbitrario.
La nozione di rispetto
dei beni culturali comprende anche l’impegno a proibire, prevenire e -
all’occorrenza - far cessare qualsiasi atto di furto, di saccheggio o di
sottrazione di beni culturali sotto qualsiasi forma, nonché qualsiasi
atto di vandalismo.
L’art. 7 prevede l’impegno per le Alti
Parti Contraenti di introdurre, fin dal tempo di pace, nei regolamenti o
istruzioni ad uso delle truppe, disposizioni atte ad assicurare
l’osservanza della presente Convenzione e ad inculcare, fin dal tempo di
pace, nel personale delle proprie Forze Armate, uno spirito di rispetto
verso la cultura ed i beni culturali di tutti i popoli.
A
riprova e in applicazione di tale obbligo internazionale, l’Italia ha
posto in essere tutta una serie di atti normativi a livello
regolamentare. A titolo esemplificativo citiamo il Manuale del
combattente - pubblicazione 1000/A/2 del 1988 dello SMD e successivi
aggiornamenti - che, nel capitolo riguardante il comportamento del
militare in guerra, cita l’obbligo del rispetto per i beni artistici e
culturali in generale; inoltre, riporta i segni distintivi di protezione
sia generale sia speciale; infine, elenca tra i crimini di guerra gli
attacchi indiscriminati contro i beni culturali.
d. Protezione speciale
Accanto alla protezione generale, la Convenzione prevede una protezione
speciale da accordare ad un numero limitato di rifugi destinati a
proteggere i beni culturali mobili, ai centri monumentali e ad altri
beni immobili di altissima importanza.
Secondo l’art. 8, la protezione speciale è accordata a due condizioni:
- che
detti beni si trovino ad una distanza sufficiente da un grande centro
industriale e da qualsiasi obiettivo che costituisca un punto di
interesse bellico;
- che essi non siano usati per fini militari.
La
“distanza sufficiente” da un obiettivo militare è un criterio generale
da verificare caso per caso e che può indubbiamente dare adito ad
incertezze ed errori. Uno dei motivi per cui il sistema della protezione
speciale ha poca applicazione da parte degli Stati è forse da
rintracciare proprio nella difficoltà pratica di attuazione.
Il
comma 5 dell’art. 8 prevede l’eccezione secondo la quale un bene
situato vicino ad un obiettivo militare può rientrare nella protezione
speciale qualora la Parte che la richiede si impegni a non utilizzare in
caso di conflitto tale obiettivo militare e ad organizzarne già dal
tempo di pace un uso alternativo.
La protezione speciale è
accordata ai beni mediante la loro iscrizione nel “registro
internazionale dei beni culturali sotto protezione speciale” ed è
disciplinata in modo dettagliato nel Regolamento di esecuzione.
L’immunità di un bene culturale posto sotto protezione speciale non può
essere sospesa che in casi eccezionali di necessità militare
ineluttabile, e soltanto per il periodo in cui questa necessità
sussista. Inoltre, essa può essere constatata soltanto dal comandante di
una formazione di importanza pari o superiore a quella di una
divisione.
e. I segni di protezione
Il simbolo previsto dalla Convenzione dell’Aja del 1954 a significare
la protezione da essa accordata ai beni culturali è sicuramente alquanto
complicato da descrivere; infatti, la descrizione araldica è la
seguente: uno scudo appuntito in basso, inquadrato in una croce di
sant’Andrea in blu e bianco.
Il segno è impiegato da solo per la
protezione generale, ovvero ripetuto tre volte in formazione triangolare
per i beni culturali immobili posti sotto protezione speciale.
3. Il Processo di revisione
Nel
1991 la Conferenza Generale dell’UNESCO adotta una risoluzione
(26C/PLEN/DR.3 Rev.) finalizzata a migliorare gli strumenti esistenti
per la protezione del patrimonio culturale e naturale del mondo.
Da allora molti sforzi sono fatti per migliorare la protezione dei beni culturali prevista dalla Convenzione del 1954.
Alla fine del 1997 il Rapporto finale del 3° Incontro tra gli Stati Parti fissa i punti principali del lavoro di revisione:
- il
desiderio di adottare un nuovo strumento che possa integrare le norme
della Convenzione dell’Aja: al fine di colmare i vuoti della Convenzione
dell’Aja e di rinforzare la protezione del patrimonio culturale;
- la necessità militare: rafforzare il concetto che necessità militare non significa convenienza militare;
- le misure di precauzione: l’adozione di misure di salvaguardia viene inclusa nel nuovo strumento;
- la
responsabilità penale individuale: si rinvia alla giurisdizione della
Corte Penale Internazionale (successivamente formalizzata con l’apertura
alla firma e ratifica del Trattato di Roma del 1998 contenente lo
Statuto della Corte);
- le questioni istituzionali: la necessità
di istituire un organismo di supervisione al fine di monitorare le
implementazioni della Convenzione;
- i conflitti di carattere non
internazionale: si rinvia alle norme previste dal 2° Protocollo
Aggiuntivo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949;
- la
forma del nuovo strumento: il progetto del nuovo strumento prevede
l’aggiunta di un secondo Protocollo, invece di una nuova Convenzione.
Su
invito del Governo austriaco, nel maggio del 1998, a Vienna si
incontrano gli esperti per discutere circa i numerosi punti cruciali da
includere nella nuova “convenzione”, in particolare la forma del nuovo
strumento internazionale, la protezione speciale, la necessità militare,
la giurisdizione e la responsabilità penale personale, oltre a
questioni istituzionali.
Nel novembre dello stesso anno, un
primo progetto articolato di lavoro del nuovo strumento internazionale
inizia a circolare tra gli Stati Parti alla Convenzione dell’Aja del
1954, gli Stati Membri dell’UNESCO e gli Stati membri delle Nazioni
Unite, con l’invito a inviare propri commenti e considerazioni al
Segretariato dell’UNESCO.
4. Il secondo protocollo alla Convenzione
La
Conferenza diplomatica, convocata sotto gli auspici dell’UNESCO e
riunitasi all’Aja il 26 marzo 1999, adotta il testo del nuovo Protocollo
(il secondo) alla Convenzione dell’Aja del 1954, che costituisce un
trattato internazionale autonomo su materie già regolamentate nella
Convenzione del 1954 e quindi un aggiornamento della stessa Convenzione.
L’ambito di applicazione delle norme contenute nel Protocollo del 1999
viene a estendersi interamente ai conflitti armati non internazionali,
mentre, ricordiamo, la Convenzione del 1954 rende applicabile ai
conflitti non internazionali solo le norme che prevedono disposizioni di
tutela e di rispetto dei beni culturali nei conflitti armati.
Viene
confermato l’obbligo degli Stati parti del Protocollo del 1999 di
assumere, fin dal tempo di pace, tutte le misure precauzionali
necessarie alla protezione dei beni culturali dagli effetti -
danneggiamento, distruzione, etc. - che si prevede un conflitto possa
arrecare agli stessi. A solo titolo esemplificativo viene citata la
pianificazione di misure di emergenza contro crolli, danneggiamenti
delle strutture, incendi; l’adozione di un piano di protezione dei beni
culturali nel luogo in cui sono o sono conservati, l’individuazione di
una autorità responsabile della protezione dei beni culturali.
Merita essere segnalata la norma sulla protezione dei beni culturali nei
territori occupati che proibisce alla Potenza occupante di effettuare o
di permettere ad altri di effettuare scavi in siti archeologici,
neanche in stretta collaborazione con le autorità nazionali del
territorio occupato - come era stato a suo tempo proposto - in quanto
proprio nei territori occupati le istituzioni nazionali sono limitate o
chiuse. Accanto a tale norma si conferma e ribadisce il divieto di
esportare o di permettere l’esportazione illecita, la rimozione o il
trasferimento della proprietà di beni culturali, storici e scientifici,
così come la loro distruzione.
Molti Stati hanno avvertito in
maniera forte l’esigenza che le norme sulla protezione speciale
rafforzata debbano riflettere e far riferimento ai valori dell’umanità e
dell’appartenenza a tutti i popoli dei beni culturali, sottolineando il
comune interesse nella salvaguardia di importanti beni culturali. Il
nuovo regime di protezione rafforzata si applica ai beni culturali
iscritti in un’apposita Lista internazionale che sarà tenuta da un
Comitato per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto
armato, composto da dodici membri designati da tutti gli Stati Parti al
Protocollo. Tali esperti governativi rimarranno in carica quattro anni.
Rispetto al Registro previsto dalla Convenzione del 1954 e tenuto dal
Direttore Generale dell’UNESCO, la Lista internazionale prevista dal
Protocollo del 1999 ha requisiti meno restrittivi di quelli richiesti
per la iscrizione al citato Registro.
In particolare, la Lista
internazionale non prevede come requisito per l’iscrizione la locazione
del bene culturale ad adeguata distanza da qualunque obiettivo militare
importante o impianto industriale di una certa dimensione. Rimane,
naturalmente, il requisito della non utilizzazione dei beni culturali
per fini militari.
Elemento nuovo e interessante nel
“regolamento” delle attività del Comitato internazionale responsabile
della tenuta della Lista viene rappresentato dalla possibilità che
questi solleciti, in determinate situazioni e condizioni, lo Stato Parte
a presentare istanza per la iscrizione di un dato bene culturale nella
Lista prevista dal Protocollo del 1999. Questa facoltà potrà sicuramente
favorire una consistenza maggiore della Lista rispetto al Registro
previsto dalla Convenzione del 1954.
Ritornando al regime
speciale della protezione rafforzata, ricordiamo che gli obblighi
previsti dal Protocollo del 1999 sono sostanzialmente quelli previsti
dalla Convenzione del 1954 e consistono nel divieto per gli Stati Parti
di attaccare i beni in parola e di utilizzarli per scopi militari ovvero
in appoggio o aiuto a operazioni militari.
Per quanto concerne
le norme relative alla responsabilità per la violazione delle norme
sulla protezione dei beni culturali, il Protocollo del 1999 contiene,
oltre al rinvio al diritto internazionale consuetudinario sul tema della
responsabilità degli Stati Parti, una regolamentazione molto articolata
della disciplina della responsabilità individuale dell’autore della
violazione.
Ad esempio, il Protocollo del 1999 dispone che le
violazioni gravi siano sempre considerate illeciti penali e punite con
pene appropriate nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali degli
Stati Parti. Per violazioni gravi si deve intendere tassativamente
l’attacco, la distruzione e l’appropriazione massiccia di beni
culturali; l’impiego a scopi militari dei beni culturali e
l’esportazione, la rimozione ovvero il trasferimento della proprietà del
bene culturale stesso da un territorio occupato.
La
distinzione tra violazioni gravi e altre violazioni è molto apprezzata
da parte di molti Stati in quanto si riflette in modo tale l’approccio
assunto dal 1° Protocollo Addizionale alle Convenzioni di Ginevra e
dallo Statuto del Tribunale Penale Internazionale del 1998, e si evita
la creazione di una nuova categoria di crimini, assicurando una larga
partecipazione della comunità internazionale degli Stati.
Si
noti anche come il Protocollo del 1999 non annovera tra le gravi
violazioni l’attacco intenzionale a beni culturali, ricalcando così lo
Statuto del Tribunale Penale Internazionale del 1998.
Gli
aspetti giurisdizionali e processuali della protezione rafforzata
dettati dal Protocollo del 1999 prevedono l’obbligo per gli Stati Parti
di adottare norme legislative che stabiliscano la giurisdizione degli
stessi per le violazioni gravi commesse nel loro territorio ovvero
commesse da loro cittadini. La giurisdizione “universale”, da
esercitarsi a prescindere dal luogo in cui la violazione grave è stata
commessa e dalla cittadinanza dei presunti autori, è prevista solo nel
caso di distruzioni o appropriazioni massicce e estese di beni
culturali, di attacco militare a beni sottoposti a protezione rafforzata
o di utilizzo a fini o in appoggio ad azioni militari.
Tale
normativa in materia di responsabilità penale individuale si armonizza
con il sistema adottato tanto dal 1° Protocollo Addizionale alle
Convenzioni di Ginevra quanto dallo Statuto del Tribunale Penale
Internazionale del 1998, con soddisfazione di molti Stati. Alcuni Stati
hanno comunque espresso il desiderio di seguire le previsioni dettate in
materia di ordini superiori da parte dello Statuto del Tribunale Penale
Internazionale, evidenziando la situazione di costrizione “mentale” e
operativa di un soldato tenuto ad obbedire ad un superiore di alto
grado.
Il Protocollo del 1999, in tema di giurisdizione
“universale” sulle violazioni gravi, prevede l’obbligo internazionale
per gli Stati Parti di perseguire penalmente il presunto autore ovvero
di estradarlo nello Stato che lo richiede per giudicarlo (principio c.d.
di aut dedere aut judicare).
Sempre a livello di giurisdizioni
internazionali notiamo come tanto nello Statuto del Tribunale penale
internazionale per la ex Yugoslavia (adottato dal Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite con risoluzione n. 827 del 25 maggio 1993 e
emendato il 13 maggio 1998), all’art. 3 - Violazioni alle leggi e agli
usi di guerra, quanto lo Statuto del Tribunale penale internazionale
(adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite il 17 luglio
1998 e non ancora entrata in vigore), all’art. 8 lettera a) - Crimini di
guerra, sono previsti e perseguibili le violazioni gravi alle
Convenzioni di Ginevra del 1949 e alle leggi e usi di guerra, tra le
quali, in particolare ai nostri fini, il danneggiamento, la distruzione e
il danneggiamento volontario di istituzioni dedicate alle religioni,
alla carità e alla educazione, alle arti e alle scienze, di monumenti
storici e opere dell’arte e della scienza.
Come dimostrano le
incriminazioni di presunti criminali di guerra effettuate dal Tribunale
per la ex Yugoslavia, le quali ricomprendono, nei capi d’accusa, anche
violazioni alla Convenzione dell’Aja del 1954 e consistenti nella
distruzione di siti e beni storici e religiosi nei territori della ex
Yugoslavia, si può quindi concludere il presente intervento affermando
che il diritto internazionale applicabile ai conflitti armati si sta
attualmente evolvendo verso la qualificazione come crimini di guerra di
azioni provocanti il danneggiamento e la distruzione di beni culturali,
sia nei conflitti armati internazionali che non internazionali, anche a
prescindere da accordi o strumenti internazionali di protezione o di
protezione speciale o rinforzata.
(*) Avvocato, docente presso la L.U.I.S.S. di Roma.